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ALESSIO

Partire è un po’ morire
07/10/2018 04:12:47
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Partire è un po’ morire - dicevano i nostri emigranti in cerca di fortuna. Ma anche arrivare lo è. Terminare un viaggio avventuroso è un po’ morire.
La luce intensa del mattino mi aprì gli occhi. Le poche ore di oscurità concesse dalle notti nordiche erano già finite. Mi stiracchiai con cautela temendo il morso del mal di gambe, ma niente, nessun dolore. Lo spazzolino faticava a vincere la resistenza delle labbra tese. Non era esattamente un sorriso, somigliava più ad un irrefrenabile senso di compiacimento.
Un tetto di nuvole grigio e basso copriva il cielo. Il borbottio dell’acqua sul fornello a propano era l’unico rumore percettibile. Il vapore saliva perpendicolare, senza volute. Il fogliame, l’aria, tutto era fermo, come congelato in un fotogramma. Mi sedetti sotto un albero con la tazza fumante in mano, sospirai per poi trattenere il fiato ed ascoltare il silenzio.
Si, la fine di un viaggio somiglia alla morte, e quella era la miglior scenografia che potessi chiedere. Tenda, sacco a pelo, attrezzatura da campeggio, sistemai il bagaglio senza pensarci, con movimenti automatici. Tutto aveva trovato una collocazione nelle borse e nella mia mente. Esercizi di straching, manutenzione rapida della bici, primi tre chilometri con rapporto leggerissimo. Attività che, appena diventate abitudine, avrei dovuto smettere.
Ma è possibile che i dolori spariscano proprio l’ultimo giorno di viaggio? E’ possibile che ci si abitui ai ritmi, alla fatica, al cibo, proprio l’ultimo giorno di viaggio? E’ possibile che ci si renda pienamente conto della propria condizione privilegiata e della sua temporaneità proprio l’ultimo giorno di viaggio? No, non è possibile. E’ il nostro atteggiamento che cambia. Il vuoto nello stomaco che si sente quando un viaggio sta finendo non è fame, e nemmeno fatica. E’ morte. Solo un piccolo assaggio, un antipasto. Che poi si torna a vivere, si rinasce. Perché un viaggio in bici ti cambia, stravolge le tue priorità, ti rimette al mondo. Rinasci perché tutto ha una fine, anche il tuo viaggio. Rinasci perché sei morto, se no come potresti? Riparti perché fermarsi non si può, altrimenti che viaggio sarebbe? Che vita sarebbe?
Tutto appariva scolorito dalla luce soffusa, appiattito dalla mancanza di ombre. Sentivo lo scorrere del tempo, e quel senso di ansia delle scadenze ravvicinate. Cercavo di registrare ogni momento, ogni scorcio, con ingordigia. Ma non si può guardare tutto, pretendere di imprigionare tutto nei ricordi. Qualcosa sfugge, inesorabilmente, restano solo emozioni fugaci, ottuse. Come quando provi ad acchiappare la sabbia e più stringi più quella scivola via. Tanto vale accontentarsi di pochi granelli e vivere il viaggio come viene, con naturalezza. E ti ritrovi composto in bici, nella tua postura a testa bassa. Scegli di ignorare un panorama bellissimo ma sempre uguale. Perché viaggiare è assaggiare lasciando sempre un po’ di spazio, e se passa l’appetito le gambe si fermano.
Se partire è un po’ morire, anche arrivare lo è. E’ un evento improvviso, un crack nella testa e nel cuore. Non coincide con l’arrivo a casa ma con la consapevolezza che il viaggio è finito.
Percorrevo una pista ciclabile pavimentata con lastre di cemento lunghe qualche metro. Il passaggio da una lastra all’altra scuoteva la bici sovraccarica, una vibrazione sorda che scandiva un tempo sempre più rapido, incalzante. La pista era completamente deserta e proseguiva dritta a perdita d’occhio tagliando in due un bosco odoroso di muschio. Alberi e cespugli si alternavano senza fine come un rullo scenografico, sempre più veloce, nel silenzio. Mi abbassai per penetrare meglio l’aria. Misi il rapporto più duro, nove metri per pedalata. Veloce, sempre di più, in un ritmo crescente, con le gambe sempre in spinta e la bicicletta perfettamente perpendicolare. Respirazione, pedalata, battito cardiaco, sobbalzi, tutto era sincronizzato, perfetto, eterno. La vegetazione si infittì. Le ruote planavano su un sottile tappeto di aghi di pino e foglie secche, vorticavano senza attrito come orologi a trentasei lancette, affamati di tempo. Nessun dolore, nessun affanno, nessun rumore molesto, nessun gas nocivo, solo velocità, dinamismo allo stato puro, volo e vertigine insieme, ebbrezza di piacere e tumulto di paura annodati nello stomaco.
La fine di un viaggio somiglia alla morte, e quel viaggio è finito lì, in un bosco nei pressi di Uelzen, è lì che sono morto, un po’.

https://www.bikeride.it/diario/racconti.php?id=211


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Il verde e il blu
10/09/2018 01:46:21
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La sala degli arrivi era invasa da una luce benevola. Mi inginocchiai. Il controluce trasformò in ombre nere i bambini che giocavano nel pulviscolo. Non era la prima volta che rimontavo la mia bici. La disposizione dei componenti sul pavimento, la sequenza dei movimenti, il marsupio porta attrezzi col taschino per la minuteria, tutto era previsto e rituale. Sembravo un veterano di guerra che rimonta il suo AK-47, mancavano solo la benda sugli occhi ed il contegno marziale. Le prime pedalate in salita confermarono i miei timori: troppo carico. Meglio una bicicletta leggera o ritrovarsi senza mutande di ricambio? Il fatto è che non riuscivo ad alzarmi sui pedali senza barcollare pericolosamente. L’inventario mentale per individuare qualcosa di cui sbarazzarmi partì in automatico.
Ero fra l’accendino e la chiave da tredici quando percepii un senso di ostilità da parte degli automobilisti. Mi osservavano, tutti. Sembravano facce disegnate sui finestrini. Dovevo avere qualcosa fuori posto. Il dubbio che il pantalone elastico avesse ceduto mi assalì. Con qualche incertezza mollai il manubrio reso instabile dal sovraccarico per controllare. Niente, tutto a posto. Ricambiai la processione di sguardi per capirne la natura. Andavano dall’ostile al commiserante, dall’incredulo all’angosciato. Archiviai quelle espressioni fra i messaggi indecifrabili e provai a far finta di niente, un po’ come fece Geppetto con la vocina proveniente dal suo ciocco di legno.
Percorrevo una strada a quattro corsie per senso di marcia che si biforcava in due grosse arterie, più da Big Apple che da Ville Lumière. Le indicazioni recitavano: a destra Paris Saint-Denis su cartello verde, a sinistra Paris Bondy su cartello blu. Non potevo certo proseguire per l’autostrada e decisi di attraversare le prime due corsie in direzione Paris Bondy, una cosa da matti. Le auto sfrecciavano ai centotrenta ed io cercavo di evitarle barcollando fra una corsia e l’altra con il collo lungo ed il fiato corto. Ricordo, in particolare, la faccia di un cinese che mi malediceva in madre lingua con le movenze concitate di Bruce Lee. Non erano passati venti minuti dall’atterraggio del Roma Ciampino - Paris Charles De Gaulle, il mio primo volo, il mio primo espatrio, il mio primo grande viaggio, il primo chilometro e già avevo rischiato di tirare le cuoia. Adoro i buoni auspici.
Al terzo svincolo con il solito cartello a sfondo verde ero scoraggiato. Sembrava che da quella maledetta tangenziale uscissero solo autostrade. Mentre mi determinavo a paracadutarmi da un cavalcavia mi resi conto di essere seguito da una Renault della Gendarmerie. Mi fecero segno di uscire allo svincolo successivo, ubbidii. La pattuglia era composta da un ragazzino allampanato e da una paffuta signora di mezza età che sembrava sua zia sia nelle fattezze che negli atteggiamenti. Dopo una breve quanto sterile colluttazione verbale provai a spiegare per quale motivo mi trovavo su quella che loro chiamavano autoroute. Je vien par avion... aeroport Charles De Gaulle... en Italie les panneaux pour l’autoroute sont vert... pas bleu... compris? Riuscii a farmi capire più per la gestualità italiana che per il vocabolario francese. Mi diffidarono dal percorrere autostrade, che in Francia hanno segnaletica blu, e sparirono prima che provassi a chiedere loro indicazioni per il centro.
Mi ritrovai perso in una zona industriale, un dedalo periferico che la pausa domenicale rendeva, se possibile, più desolato. Ma l’avevo vista, solo per un attimo, percorrendo lo svincolo, bastava proseguire in direzione Sud-Est e sarei arrivato al primo traguardo, la Tour Eiffel. Incontrai i primi esseri viventi dopo sei chilometri di cemento: due cespugli avventizi ed un ragazzo magrebino alla fermata del bus. Pour la Tour Eiffel? Quello sembrò risvegliarsi da una anestesia totale. Ou? Il fatto che non avesse battuto i pugni sul petto per accompagnare quel suono mi meravigliò non poco. Le centre de Paris... l’Ile de la Citè... la Tour Eiffel? A quel punto il magrebino capì che non ero un borseggiatore, che non ero un mentecatto e, soprattutto, che non ero francese e decise di concedermi un plurisillabo: tout droit. Confidando nel mio misero francese scolastico svoltai a destra, ma la strada era chiusa e decisi di tornare dal ragazzo di poche parole a chiedere conto delle sue indicazioni. Mi catechizzò senza smentire la sua propensione alla sintesi. Tout droit e fece un cenno in avanti. A droite e fece un cenno a destra. Dritto e destra si dicono nella stessa maniera, utilizzando suoni indistinguibili per uno straniero. Ma che lingua è? E’ come se noi italiani dicessimo dritto e a dritta pretendendo di essere compresi dagli ospiti. La lingua e la sua comprensibilità sono rappresentativi della propensione all’apertura di un popolo. Ecco, i francesi sono la nazione più chiusa d’europa, secondo me.
E poi c’è la Francia, bellissima. La Tour Eiffel è talmente enorme che sembra di arrivarci svoltato l’angolo, e invece non arriva mai. Poi, quando ormai ti senti grande come un batterio dello yogurt, c’è un ponte sulla Senna e poi la torre. Ci sono dei posti nel mondo che ti fanno sentire protagonista anche se sei in mezzo alla folla. Posti magici, senza tempo. Arrivare alla torre in bici e’ un po’ come tagliare un traguardo, uno di quei traguardi che ti fanno respirare a fondo, e ti fanno sentire vincente, anche se sei ultimo e la gente ti dà le spalle.

https://www.bikeride.it/diario/racconti.php?id=201


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Rilevanza turistica
27/08/2018 12:33:08
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La strada si avvitava su un colle disegnando una spirale di chilometri. In cima alla salita, fra le tracce stinte di un posto di frontiera, svettava un moderno obelisco di cemento, simbolo dell’unione fra le due Germanie e ricordo indelebile di una separazione dolorosa ed ancora riecheggiante. Da quel punto in poi la cartina stradale diventava meno dettagliata. Nessuna segnalazione di rilevanza turistica. Si limitava a riportare le strade, come se nell’ex DDR non ci fosse nulla da vedere.
Effettivamente tutto cambiava. La strada proseguiva assecondando l’andamento del territorio, senza ponti né gallerie, e, nell’asfalto fratturato, vaste aperture lasciavano intravedere la vecchia pavimentazione in ciottoli di fiume. L’atmosfera irreale della foresta tedesca si stemperava nell’odore dolciastro dei campi di patate. Il sibilare delle BMW si mescolava al frinire delle Trabant, vetturette con la carrozzeria di plastica ed il motore a due tempi. Supermercati, centri commerciali, teatri, sale cinematografiche, discoteche ed alberghi trovavano posto nei colossali ruderi delle industrie di stato, mostri grigi trasformati in strutture sgargianti, capienti, vive, ma comunque inquietanti.
Il territorio della germania dell’est era un immenso cantiere a cielo aperto, il fragore di un’operosità frenetica rombava nell’aria e dovunque si indovinavano gru e pennacchi polverosi. Spesso le strade erano interrotte per lavori, ma chiedere informazioni per percorsi alternativi era impossibile, non incontrai un solo tedesco dell’est che conoscesse l’inglese. Le donne avevano un’aria semplice e genuina, portavano in volto il pallore di una vita senza agiatezze. Indossavano grossolani abiti fiorati lunghi fino al ginocchio chiusi in vita da una stringa ricavata dalla stessa stoffa, una specie di uniforme per casalinghe.
Percorrevo un viale che attraversava l’ennesimo paesino spoglio, grigio e polveroso. Una bella ragazza, animata dal suo passo svelto, attirò la mia attenzione. Riuscii a scorgerla da lontano, fra la gente, e a non perderla di vista fino ad incrociarla. Indossava il solito abitino da casalinga, ma i fiori, piccoli e colorati, spiccavano sull’elegante sfondo bordeaux. In quel grigiore spiccava come il cappottino rosso della bambina di Schindler’s list. Portava una grossa cesta tenendola premuta conto l’anca con una sola mano. Il braccio libero scandiva l’incedere. Era da un po’ di giorni che facevo il turista a tempo pieno, fermarmi ad ammirare tutte le meraviglie che incontravo era ormai un’abitudine. Senza neanche rendermene conto mi ritrovai fermo a guardarla manco fosse una chiesa gotica o un panorama montano, dovetti reprimere l’istinto di metter mano alla fotocamera. La ragazza decise di fermarsi a sua volta e mi guardò con una scherzosa aria di sfida. Cercai di recuperare un contegno distogliendo lo sguardo verso il nulla, senza riuscire a cancellare dal mio volto quella stupida espressione a bocca aperta da meravigliato dal mondo. Si avvicinò illuminata dal compiacimento e mi porse una pagnotta presa dalla cesta. Il pane era caldo e profumava di buono, o almeno credo, lei aveva un sorriso da bambina che avrebbe sciolto il pack e reso dolce il cianuro. Avrei voluto dirle qualcosa, ma cosa? e in quale lingua? Certo, avrei potuto ringraziarla, anche con un semplice gesto, ma la timidezza è un mostro tentacolare che si ciba del tuo tempo, delle tue opportunità e di te. Lei flautò un incomprensibile saluto e mi lasciò lì, con la pagnotta in mano. Ripresi a spingere sui pedali cercando di dimenticare quell’episodio nel tentativo di liberarmi dal senso di inadeguatezza. Dopo poco smisi di pedalare lasciando scorrere la bici per inerzia. Un lago, una panchina, la mia stanchezza, una pagnotta calda, l’emozione che ancora vibrava nello stomaco, c’erano tutti gli ingredienti per strappare qualche minuto stanziale al frenetico viaggiare di quei giorni. Mi sedetti su quella panchina aggredita dalla vegetazione spontanea, la stessa vegetazione che aveva scomposto la pavimentazione del marciapiede. L’artefice di quel piccolo disastro era una inquietante pianta lacustre costituita da rami violacei, abilissimi nell’infilarsi negli anfratti e nell’avviluppare gli oggetti per poi distruggerli per costrizione, un autentico demolitore vegetale, lento ma inesorabile. Il cielo grigio e fumoso si specchiava nell’acqua facendone un posto triste e cupo. A riva alcuni rifiuti popolati dal muschio assecondavano l’impercettibile moto ondoso e contornavano di squallore il lago meno bello d’Europa.
Mentre affondavo i denti nella fragranza del pane fresco comparve una coppia di cigni. Non saprei dire chi fosse il maschio e chi la femmina, a dire il vero non sono nemmeno in grado di escludere l’omosessualità, so soltanto che erano meravigliosi. Presi singolarmente sarebbero stati dei bellissimi esemplari, e basta, ma insieme rappresentavano uno spettacolo talmente commovente e disarmante da eclissare lo squallore che li circondava. Eleganti e maestosi, giocavano, scherzavano, si amavano, si completavano, godevano pienamente della loro vita semplice e frugale. Allungai la mano verso la borsa determinato a prendere la fotocamera per fissare quegli istanti. Nel recuperare la borraccia, che nel frattempo era caduta sotto la panchina, scorsi un fiore di dimensioni eccezionali e di straordinaria bellezza. Ero totalmente sconvolto, quello schifo di pianta distruttrice e priva di foglie aveva deciso di far sbocciare un unico, magnifico fiore nel posto meno raggiungibile e meno visibile, quasi avesse pudore di tanta bellezza. Lasciai perdere la macchina fotografica e continuai a godere di tutti i tesori che quell’angolo di mondo serbava.
Il bello è in ogni posto, e non sempre è segnalato da una cartina.

https://www.bikeride.it/diario/racconti.php?id=193


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Fra terra e cielo
03/08/2018 13:09:45
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Il piano della scrivania era illuminato di sbieco dalla lampada a pantografo. Rum, gelato malaga e mio fratello, più giovane e più sereno di come lo ricordassi. Mi raccontava di un viaggio a Londra con la sua prosa fluida e beffarda fatta di illazioni che diventano verità, e di evidenze smentite dall’imponderabile.
“Il cielo d’Inghilterra sembra più basso, hai la sensazione di poterlo toccare alzando un braccio” mi disse.
Wake up! la voce di Michael si incuneò nel mio sogno. Erano le quattro e mezza di mattina. Dormivo da sette, otto minuti. Il mix di tolleranza e accondiscendenza che mi contraddistingue mi impedì di mandarlo dove meritava. Era un caro ragazzo, un inglese di Hull che avevo conosciuto al porto di Le Havre. Era arrivato con la sua Honda 1100 XX, un bolide nero che lui chiamava time machine. Mi spiegò che quattro ore prima si trovava a Montpellier, un migliaio di chilometri più a sud. Il molo era pieno di motociclisti e c’erano anche parecchi ciclisti. Le due comunità formavano gruppi ben distinti e separati, tranne noi. Ci trovammo subito simpatici e dividemmo la cabina per risparmiare sul biglietto. La piacevole serata davanti ad una tazza di thé e pasticcini al burro non lasciava presagire la nottataccia. Dire che Michael russava è un eufemismo, ragliava come un somaro della barbagia. Provai a svegliarlo: scossoni, ciabattate, pizzicotti, avrei potuto espiantargli un rene senza ottenere un attimo di silenzio.
Avevo ancora i neuroni allo stato brado quando Michael mi invitò a guardare fuori. Era tutto bianco, ebbi l’impressione che il vetro dell’oblò fosse satinato. Una volta ripristinate le sinapsi, però, indovinai la sagoma del molo a non più di due metri. What is this? Fog, english fog! Vedevo la nebbia per la prima volta. Quella che giù in Puglia chiamiamo nebbia dalle parti di Portsmouth non ce l’hanno in catalogo, è aria tersa. I minuti passavano ma la sensazione di spossatezza no. La stanchezza era naturale conseguenza della notte in bianco ma il mal di ossa era davvero insopportabile. All’ennesimo giramento di testa mi portai una mano alla fronte, sentii che scottavo. Restai lì, fermo, mentre il traghetto ribolliva di attività. Michael cercò a più riprese di smuovermi dal torpore, inutilmente, poi la sirena del traghetto mi scosse. Mi rivestii con i movimenti di un automa.
Febbricitavo nella stiva quando aprirono il portellone. Una nebbia densa come zucchero filato invase l’enorme pancia del traghetto inghiottendo auto e camion. Percorsi il tunnel di luce. Mi resi conto di essere uscito dalla nave solo quando l’agente della dogana mi chiese i documenti, le porsi la carta d’identità barcollando. I’m in desease... i have fever... please, help me. Era una graziosa ragazza che indossava la divisa in modo impeccabile, o almeno è quello che mi pare di ricordare. Fatto sta che mi fece cenno di proseguire per lasciare strada a chi sopraggiungeva. Percorsi una decina di metri senza trovare la forza di risalire in bici. Mi voltai per riprovare a chiedere aiuto, non trovai nulla. La nebbia aveva inghiottito tutto. Mi rassegnai a proseguire in quel mondo al contrario dove la cecità è luce, dove l’aria ha un corpo e il resto è ombra.
Procedevo ai cinque orari affidandomi al cordolo reso ben visibile dalla colorazione a strisce bianche e rosse. Non avevo neanche la più pallida idea di dove stessi andando. Avevo la cartina, si, ma per strada non c’era un’indicazione, neanche una, e mi sentivo mancare. Che ci faccio qui? Che faccio adesso? Come esco da questa situazione? Sono tante le domande che girano in testa quando ti senti perso. Nel frattempo il cordolo aveva lasciato il posto ad un normale ciglio di strada molto meno visibile. Mentre cercavo di ricostruire i riferimenti visivi un boato squarciò la nebbia. Ne venne fuori il muso di un camion contromano che mi sfiorò. Passò talmente vicino da toccarmi il braccio sinistro. Il clacson risuonò furibondo per molti metri. Ero stordito e incredulo, non avevo visto nessuno alla guida di quel camion. Passò un’auto, anche questa contromano, la guidava un bambino di due o tre anni. In preda all’ipertermia, alle allucinazioni, alla stanchezza ed allo scoramento mi inoltrai in un campo arato. Srotolai il sacco a pelo e mi infilai al calduccio.
Le volute di nebbia aleggiavano lente, come anime in pena, ebbi la sensazione che anche la mia volesse abbandonarmi per unirsi alla processione.
Al risveglio il mondo mi sembrò un posto più accogliente, furono sufficienti pochi secondi per esorcizzare i fantasmi di un’ora prima. Ero in Inghilterra, dove si tiene la sinistra e il posto guida è a destra. In realtà quello contromano ero io. I guidatori c’erano, e se avessi guardato sul sedile affianco li avrei visti. C’erano anche le indicazioni, bastava guardare il lato giusto del cartello.
Mi risvegliai pigramente con un sorriso inestinguibile. Gli occhi che non volevano aprirsi, stanchi del bagliore della nebbia e della sua continua elusione. Poltrii, restai al caldo del sacco a pelo in mezzo a quel campo di terra smossa e profumata, in mezzo alle mie nuove, rassicuranti consapevolezze. Ero ancora sdraiato quando aprii gli occhi. Mi trovai un muro davanti. La nebbia era sospesa a cinquanta centimetri da me e formava un pannello compatto. Potevo vedere mezza bici, le ruote delle auto che correvano sulla strada. La visibilità fino a mezzo metro di altezza era perfetta, uno spettacolo surreale. Tirai fuori una mano dal sacco a pelo ed l’affondai nella coltre nebbiosa, nella nuvola.
“Il cielo d’Inghilterra sembra più basso, hai la sensazione di poterlo toccare alzando un braccio”

https://www.bikeride.it/diario/racconti.php?id=186


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ALESSIO

Col senno di poi
24/07/2018 02:59:35
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La tomba era una massiccia costruzione in marmo scuro, una sepoltura imponente ed austera grande come una piazzola da campeggio. Mal si addiceva ad un cicloturista poco incline alle pomposità. Mi riconoscevo a stento in quella fotoceramica, mi faceva triste e smunto. Ero dispiaciuto più per come mi avrebbero ricordato che per il fatto che fossi morto. Il tumulo non è importante, lo so. Ma chi speri che venga a trovarti chiuso dentro un mausoleo? Avrei preferito qualcosa di meno sfarzoso, qualcosa di più originale ed accogliente. Non so, una lapide LCD da 42 pollici sintonizzata su Sky Sport HD, invece dei fiori un portagiornali con la Gazzetta sempre fresca, frigobar, due poltroncine ed una hostess in minigonna. Sai la calca?
Un ululato illividì l’aria, improvviso come un tuono diurno. Si alzò un vento fortissimo. L’ululato si fece più intenso, il terrore mi smosse le ossa. Comparve un lupo enorme, ingobbito dalla ferocia, immobile. Mi riferisco a quell’immobilità sospesa e sbilanciata che precede il furore, quella di un centometrista sui blocchi. Ero immobile anch’io, per quanto mi sforzassi di scappar via, come imbustato sottovuoto. Poi il lupo mi attaccò, fulmineo. Fui svegliato dal mio stesso urlo. Albeggiava e la luce dava un aspetto diverso al prato che avevo scelto per trascorrere la notte. L’ululato rimbombava nelle orecchie. Mi misi a sedere con un colpo di reni. A tre metri c’erano delle croci in marmo bianco perfettamente allineate. La suggestione dell’incubo amplificò il terrore. Balzai in piedi senza uscire dal sacco a pelo. Saltellando mi avvicinai alla bassa recinzione che mi separava dalla strada. Poi l’ululato cessò improvvisamente lasciando il posto ad una voce. Un uomo in tenuta da giardinaggio blaterava qualcosa in inglese con aria costernata. Era lì vicino e brandiva uno di quei soffioni per spazzare il fogliame. Lo esortai a continuare il suo lavoro con un ampio gesto della mano.
Una volta recuperata la bici ripresi la strada oppresso da un senso di irrealtà, una sensazione simile ai postumi di una scossa ad alto amperaggio. In quel punto il leggero declivio si trasformava in una pendenza notevole, aggredii la salita spingendo sui pedali l’eccesso di adrenalina. Dopo pochi chilometri cominciai a sentire le prime fitte ai quadricipiti, sembrava che un maniscalco mi stesse praticando l’agopuntura con chiodi e martello. Continuai a pestare sui pedali a denti stretti, quasi in apnea. Presto i chiodi diventarono scalpelli e ricaddi sulla sella in preda al debito di ossigeno. Il cuore rimbombava nelle tempie. Mi sentii debole, sconfitto, infastidito. Avevo sognato un campo santo per poi scoprire di esserne inconsapevole ospite: roba da matti. Intanto la strada scollinava e la discesa mi riconobbe il credito. Approfittai della tregua per accantonare le suggestioni e cercare di capire come, senza avvedermene, fossi capitato in un cimitero.
La giornata precedente era stata terribile: il vento contrario e a raffiche, la pioggia battente, persino una foratura nei pressi di una fungaia i cui effluvi toglievano il fiato. Non c’era stato verso di trovare un riparo, pedalavo con i movimenti di un carillon a fine carica. Si era fatto scuro, gli occhi erano ridotti a fessure. Un tratto di strada in leggera discesa e dal fondo regolare mi cullò fino a farmi abbassare le palpebre. Sentii il piacevole bruciore che assale gli occhi stanchi una volta chiusi. Lo sbilanciamento della bici senza controllo mi risvegliò un attimo dopo. Un colpo di sonno in bici, finchè non ti capita non puoi credere sia possibile. Scavalcai la bassa recinzione di un giardino che ospitava grandi conifere. Era una notte priva di luna, buia come la cecità. Presi il sacco a pelo e lo distesi sul prato, sotto un grosso albero. Il manto erboso era molto curato e profumava di resina. Ero talmente distrutto da non riuscire a montare la tenda, e nemmeno a cambiarmi. Mi limitai a coricare la bici accanto a me, come fosse una donna, una donna priva di vita.
Invece, di donne e di uomini privi di vita ce n’erano tanti. John Varley, Laura Lippman, James Montgomery, Sara Montgomery, Nicholas John Kestell, sono tornato a salutarli, non potevo scappar via così. Le loro storie, i loro ricordi, i sentimenti, i pregi e gli umani difetti erano percepibili, riecheggiavano. Un prato così vale ben più di qualsiasi tappeto persiano. Ho trovato conforto e riparo in quel cimitero, e mi piace credere che neanche ai miei ospiti estinti sia dispiaciuta la mia compagnia. Probabilmente, messi davanti al proprio tumulo, anche loro avrebbero desiderato qualche comfort in più per i visitatori.
Con immenso rispetto.

https://www.bikeride.it/diario/racconti.php?id=183


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Una striscia di Gaza lunga da qui a Plutone.
20/07/2018 23:56:32
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Cos’è un ciglio di strada? Il margine della strada. E poi? Il posto al di là dell’asfalto e al di qua del guard-rail. E poi? Il posto dove, un giorno, la macchina mi ha lasciato a piedi. E poi? Che ne so! Il posto dove mettono i cartelloni pubblicitari?
Se, per una volta, scendessi dalla tua auto, tanto per vedere com’è fatto il ciglio della strada che percorri tutti i santi giorni, te ne accorgeresti che non è una quinta di teatro muta e inodore. Scendi! Prova a respirare senza filtro antipolline, tranquillo, il tuo fiato non appannerà i vetri. Respira! Anche se la strada sa di diesel, merda, morte e vita, come dice il Liga. Ascolta! Lo senti il cane che abbaia in lontananza? Tu pensi che presto verrà ad aggredirti e che è l’unico essere vivente nel raggio di 3 km. Povero illuso. Sappi che ci sono 37 lucertole, una coppia di bisce ed una intera famiglia di ricci di campagna che osservano ogni tua mossa, senza contare un migliaio fra mosche, api terricole, cimici del fieno e tafani e, per tua fortuna, smidollato come sei, nessuna di queste orrende bestie può rappresentare un pericolo. Ma tu, animale evoluto, riesci a vedere solo la colonia di buste di plastica che popola la vegetazione spontanea.
Nel frattempo il cane si è avvicinato e ti guarda. Coda dritta, un orecchio teso e l’altro floscio. Adesso saltella sulle zampe anteriori senza piegarle. Non chiederti perché sei lì, aspetta, non è il momento. Prova a fare qualche passo lungo il ciglio della strada, prova a guardare il mondo con gli occhi di quel cane. Eccola, il rombo è forte, minaccioso, prepotente, è solo un’utilitaria ma a 100 orari fa paura. C’è una buca che la gomma asseconda schioccando una frustata sull’asfalto, il botto ti scuote anche se te lo aspetti, come quelli di natale. Sei investito da un alito pesante, umanamente gelido, termicamente torrido, chimicamente velenoso. Osservi quella rumorosa scatola d’acciaio nel suo arrancare contro natura su un nastro di bitume appiattito ad arte da altri animali come te, evoluti, e te ne vergogni. Prova ad attraversare la strada, ma attento, qui le auto sfrecciano sul serio, non è come attraversare in città. Cento metri più avanti c’è la carogna di un cane di media taglia gonfia di putrescenza, sembra una zampogna, poco più in là se ne indovina un’altra, più vecchia, ridotta a uno zerbino. Sono le tracce di una guerra combattuta tutti i giorni, dappertutto, senza bollettini, senza echi, senza morti né feriti che siano degni di nota. Anche il movente è quello delle guerre, il possesso di un territorio, il diritto allo sfruttamento ed all’occupazione. Questa è una strada fatta dagli uomini per farci correre le proprie scatole di ferro. E’ così da un secolo e così sarà per l’eternità.
Eternità? Hai detto eternità? Ti accorgi che lungo i margini il tappeto d’asfalto è corroso, perforato da fili d’erba ed infiorescenze, aggredito dal lento ma inesorabile metabolismo della natura che, a dispetto della nostra indole conservatrice, pone fine ad ogni cosa allo scopo di perpetuarsi. Il fine è l’eternità, comunque, solo vista in un modo diverso, meno individualista, in un contesto più ampio ed armonico, più naturale.
Allora, cos’è un ciglio di strada? Un limite, una linea di confine, una trincea. E poi? Un immondezzaio, una discarica a cielo aperto, una latrina, una fossa comune. E poi? E’ una corsia che non c’è, riservata a quelli che è meglio che si scansino, ai lenti, a quelli che non tengono il ritmo, agli sfigati, alle gente ai margini, alla gente di strada che, pur chiamandosi così, non è padrona nemmeno di quella. E poi? Ci puoi trovare animali randagi, anime randagie, poveri cristi a cui piace sudare, respirare miasmi e farsi sfiorare dalle auto in corsa. E poi? Ci puoi trovare auto in avaria, gente in avaria. Ragazze che affittano il proprio involucro, sgualcite come fiori passati di mano in mano, spente e ferite come bambole vudù. E poi? Avanti, cos’è un ciglio di strada? E’ il vero limite fra l’essere umano e madre natura, il posto in cui releghiamo il mondo e, allo stesso tempo, la soglia del nostro ghetto. E’ una striscia di Gaza, solo più lunga, come da qui a Plutone.

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Lungo il fiume
16/07/2018 19:52:28
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Per un pugliese della Murgia il fiume rappresenta un mito. Le parole pesca sportiva, rafting e trota salmonata suonano esotiche come avocado, igloo e boomerang. Richiamano posti lontani, culture distanti. Qui da noi i fiumi si chiamano gravine e sono solchi carsici a regime torrentizio che si ricordano di essere corsi d’acqua una volta ogni vent’anni, tanto che anche noi uomini lo dimentichiamo, e ci scappa il disastro. Uscivo dall’ufficio postale di Rosny sur Seine quando feci caso allo strano odore che appesantiva l’aria. Un odore che non avevo mai sentito prima, un olezzo fra muffa da infiltrazione e scarico di lavello appena sgorgato. L’idea che fosse l’odore della Senna non mi sfiorava nemmeno. Rimontai in bici con i polmoni a mezzo servizio. Quella di spedirmi lettere durante i viaggi è una mia abitudine, trovo sia il modo più affascinante e sorprendente di tenere un diario, e poi ritrovarle a casa è bellissimo. L’odore di stantio continuava a togliermi il fiato. Tendeva a diminuire quando la strada si allontanava dalla Senna, ma continuavo a non collegare la puzza col fiume. Era l’ora di pranzo quando decisi di prendere posto in un “Restaurant”. Il cameriere aveva modi sbrigativi ma porgeva le pietanze con una coreografia sontuosa al limite del grottesco, alla francese insomma. Avevo preso del pesce. Per un pugliese il pesce arriva dal mare, i pesci d’acqua dolce vivono nelle bocce o negli acquari e una volta defunti si buttano nel cesso. Il pesce di mare, invece, si butta sulla brace, si gira e si mangia. Lo si può cucinare in vari modi, condire a piacimento ma, di base, porta in sé il sapore e l’odore del mare. Quel giorno scoprii che il pesce di fiume è commestibile, almeno per qualcuno. Viene cucinato in maniera elaborata per nascondere l’odoraccio di fiume. Il mio, in particolare, aveva un odore collocabile fra l’acqua dei piatti e la biancheria sporca. Certo, la maestria di uno chef può fare miracoli, ma perché non cimentarsi con del sughero o del cuoio, tanto il risultato sarebbe più o meno lo stesso. Nel frattempo ordinai una bistecca “...grillé, pas tonnè. Il vitello col tonno te lo mangi tu! Carne e pesce, alla francese.

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Restituite l’Oro a Chelimo!
29/05/2018 21:05:42
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Questa storia inizia negli anni ’70 fra le colline del Cherangani, dove l’Africa è verde e fresca. Lì, in Kenia, a tremila metri sul livello del mare, nelle tende della tribù Kalenjin, nacque una generazione di fenomeni, potenti come cavalli, leggeri come uccelli, eleganti come gazzelle.
Da quelle parti non si usa tramandare il cognome. Per la loro cultura il nome definisce una persona, oltre ad identificarla. Per questo nessuno sospetterebbe che i plurimedagliati Moses Kiptanui, Ismael Kirui e Richard Chelimo siano parenti, eppure sono fratelli e cugini, nati e vissuti nello stesso villaggio, allevati dalla stessa famiglia.

I tre erano solo dei ragazzini quando i sogni di Henry Rono, anch’esso keniano degli altipiani, furono spezzati dal boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca del 1980. Henry, in quel momento, era leader del mezzofondo, detentore dei record mondiali su tutte le distanze 5.000, 10.000 e 3000 siepi. Avrebbe fatto man bassa di medaglie, e invece niente. Aveva cominciato l’attivita agonistica ormai trentenne, quando era riuscito a scappare dall’Africa, e non avrebbe più avuto occasione di partecipare ad un’Olimpiade. Così aggiunse un triste primato al suo palmares: è l’unico detentore di record mondiale a non aver mai vinto una medaglia, né olimpica, né mondiale, né nazionale, nella sua specialità. E solo perché, da transfugo keniano, non ha mai potuto disputare gare in quelle competizioni. Gli resta il merito di aver fatto scoprire al mondo che, nel cuore dell’Africa, c’è una terra la cui gente corre come il vento.

Ma all’Olimpiade di Barcellona non c’è alcun boicottaggio. Sono passati dodici anni dall’incubo sportivo di Henry Rono. La generazione di fenomeni keniani é sbarcata sulla scena mondiale, e nessuno può impedire a Richard Chelimo di prendere ciò che è suo di diritto. Lui è il più forte, lo ha già dimostrato. Ai precedenti mondiali, quelli di Tokio, ha dovuto cedere la vittoria al suo capitano, per rispetto, per anzianità. Adesso tocca a lui, staccherà tutti a modo suo, a tre giri dalla fine, con una delle sue progressioni incontenibili. Nessuno può fermare Richard, nemmeno Khalid Skah, il marocchino che si ostina a rimanergli attaccato alle calcagna.

Ma Richard Chelimo non é mai stato un ottimista, teme sempre che qualcosa possa impedirgli di concretizzare i suoi sogni. Un concorrente sleale potrebbe rallentare, farsi raggiungere, e poi, invece di cedere il passo per il doppiaggio, tagliare la strada, rompere il ritmo, e chi fa sport di fondo sa cosa significa. Ma una cosa così non si è mai vista alle Olimpiadi, o almeno non fino a quel momento, perché Hammou Boutayeb, un altro marocchino, è davvero lì, e continua ad ostacolare, fintare, zigzagare, disturbare in tutti i modi Richard per tenerlo lì ed avvantaggiare il suo compagno di squadra Khalid Skah. La folla assiste allo spettacolo più antisportivo della storia delle Olimpiadi, ulula furibonda il proprio dissenso. Ma il marocchino continua, innervosisce Richard con gesti e parole, senza alcun rispetto. Un commissario di gara tenta di bloccare fisicamente il doppiato, ma niente. E’ il caos.

Trecento metri al traguardo. Dopo aver spudoratamente ostacolato Richard ed avergli di fatto impedito di staccare Skah, Hammou Boutayeb cede il passo: l’ignobile missione è compiuta. Richard Chelimo e Khalid Skah si giocheranno la medaglia d’oro allo sprint. Richard tiene duro, tiene per senso di giustizia, tiene per senso del dovere, tiene perché altrimenti uscirebbe quel che porta dentro, rabbia, lacrime e disperazione. Ma alla fine deve piegarsi. Skah ha un finale incredibile, non ha mai perso uno sprint nella sua carriera, e non perderà nemmeno questa volta.

Marocchini squalificati! Tutti d’accordo. Il pubblico l’ha chiesto a gran voce, già prima che il traguardo fosse tagliato e che quella pantomima finisse. I commissari ratificano. Richard sale sul gradino più alto e corona il suo sogno. Sul terzo gradino c’è Salvatore Antibo, l’atleta siciliano il cui bronzo olimpionico rende sublime l’addio forzato all’agonismo a causa della sopraggiunta epilessia, come si apprenderà anni dopo. Tutto perfetto, tutto giusto, ma dura poco. L’indomani Salvatore dovrà restituire la medaglia e Richard accontentarsi dell’argento. Il ricorso della nazionale marocchina viene accolto. L’unico squalificato è Hammou Boutayeb, il “doppiato”. E’ un autentico scandalo.

Richard Chelimo aveva pieno diritto a quell’oro olimpico. Il mondo intero ha assistito a quello spettacolo indegno. Tutti hanno visto. Due atleti sleali hanno fatto scempio di ogni valore etico, si sono fatti beffe dello spirito olimpico proprio durante l’Olimpiade, e nessuno ha fatto nulla, anzi, tornano a casa vittoriosi.

Il mondo ha voltato le spalle a Richard, lo ha lasciato solo. Se Richard Chelimo non ce l’ha fatta è colpa nostra. E’ colpa nostra se Richard ha smesso di credere nello sport e s’è ritirato dall’agonismo a soli 23 anni. E’ colpa nostra se, quando è morto, non aveva al collo il suo oro olimpico. Un tumore alla testa se l’è portato via a 29 anni. Un talento é rimasto inespresso, un campione è morto triste e solo, ed è colpa di ognuno di noi.

Restituiamo l’Oro a Richard Chelimo, restituiamogli quello che é suo. Chiediamo che gli venga conferita la Pierre de Coubertin, la medaglia del vero spirito olimpico. E non dimentichiamo i grandi campioni solo perché sono fuori dagli annali. Non dimentichiamo Richard Chelimo ed Henry Rono.

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Solitudine
02/05/2018 18:39:16
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Ero uscito con il mio abito beige, mi faceva sentire a mio agio, in tinta col sole di primavera. Gli altri indossavano i jeans di Armani, l’uniforme di quel aprile dell’ottantaquattro. Ma le uniformi uniformano chi ce l’ha, per gli altri sono divise, ti dividono dal gruppo.
C’era una ragazza che mi piaceva, in realtà non la conoscevo, non abbastanza da decidere che sarebbe stata la donna della mia vita, ma il solo fatto di guardarla mi faceva sentire bene, e male. Sentivo un male fisico, interno. Non un dolore allarmante ed oscuro, di quelli che ti fanno correre al pronto soccorso. Era più un senso di vuoto, l’esatto contrario del mal di stomaco, un malessere continuo e dolcissimo. E poi quel gran mal di testa, un pensiero fisso, dominante. Ne parlai a mio fratello. “Stai crescendo” mi disse. Non pensavo che la crescita facesse vedere il mondo con occhi diversi. Erano tre mesi che portavo gli occhiali, ma non era una questione di vista. Guardavo i miei amici e non vedevo altro che degli sciocchi, dei bambini che portavano i loro corpi da adulto come vestiti di carnevale, un carnevale fuori stagione, fuori luogo.
La serata si trascinò stancamente, come un cane morente in cerca del posto giusto dove sputare l’anima. La stradina di paese che portava alle giostre era semideserta. Una tv a volume troppo alto rimbombava per la via, la sigla della domenica sportiva innescava in me la sindrome del lunedì. Lo so, è stupido prendersela con il lunedì, è un giorno come gli altri, solo più sfortunato. E’ come la punta della supposta, è lei che passando fa male, il resto scivola via senza maledizioni.
Eravamo davanti al traballero ed il solito mitomane faceva sfoggio delle sue doti di equilibrista. Lei, la ragazza che era riuscita ad entrarmi dentro senza neanche avvicinarsi, se ne stava fra le braccia di un tipo, uno brutto. Ingoiai amaro. Pensai di valere meno di quello schifo di ragazzo. Pensai che confidarmi con dei bambini pronti a ridere della loro stessa ombra non mi avrebbe aiutato. Intanto le stupidaggini del giostraio uscivano dall’altoparlante distorte e gracchianti. Non è importante avere qualcosa di decente da dire, la facoltà di parola si guadagna con i decibel, basta un microfono in mano per avere il diritto di inquinare il mondo senza contraddittorio.
SPARISCI GIOSTRAIO! Tu e la tua sterile logorrea.
SPARITE! Fantocci dei miei vecchi amici, andate a scimmiottare un po’ più in là.
SPARITE TUTTI! Mucchio di invasati! Prede di un’isteria che non ha niente a che fare col divertimento.
Ci si può sentire soli ovunque, soprattutto in mezzo alla gente.
Alzai lo sguardo per rifugiarmi nelle stelle. Cassiopea, la sua W in mezzo al cielo. Ma cosa sono le costellazioni? Gruppi di stelle? No. Sono stelle di origini diverse che si trovano a enormi distanze l’una dall’altra. Nulla in comune, solo il nostro punto di vista. Sono oggetti celesti otticamente raggruppabili, insomma, li abbiamo accomunati noi uomini, e ci siamo inventati nomi, storie. E’ una nostra fissa, una tara da bambini, vogliamo raggruppare, unire, fidanzare tutto e tutti. Come quel mio compagno delle medie “Paolo e Licia sono fidanzati?” “Chi?” “Quelli di BimBumBam!”
SPARISCI PURE TU!
La Galassia di Andromenda, M31, quello si che è un gruppo di stelle. E’ la luce di miliardi di astri partita 2,5 milioni di anni fa, quando sulla terra c’erano ancora gli australopitechi, e della lingua che abbiamo utilizzato per darle un nome non c’era traccia. Probabilmente quelle stelle non esistono più, ammiriamo una proiezione, solo a pensarci viene il mal di testa. Granelli di sabbia al vento, questo siamo. Parassiti su un residuo di combustione, niente di più.
Tornai sulla terra. Il chiasso furibondo della festa patronale prese il posto del silenzio siderale in cui mi ero rifugiato, mi sorprese. Ero ancora lì, in mezzo agli abitanti della terra, agli alieni. Non tutti possono ascoltarti. Non tutti parlano la tua stessa lingua. Quando ti senti solo in mezzo all’universo e ti viene voglia di arrenderti e comprare uno schifo di uniforme, tirati su, prova a fare due passi, ad andare più in là. Non si può condividere la vita con qualcuno solo perché ti capita accanto, non si può stare insieme per caso, come oggetti che si incontrano sul fondale marino portati dalle correnti, e lì giacciono.
Ci si può sentire soli ovunque, soprattutto in mezzo alla gente, ed è del tutto normale.

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