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ALESSIO

Partire è un po’ morire
07/10/2018 04:12:47
Post di ALESSIO
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Partire è un po’ morire - dicevano i nostri emigranti in cerca di fortuna. Ma anche arrivare lo è. Terminare un viaggio avventuroso è un po’ morire.
La luce intensa del mattino mi aprì gli occhi. Le poche ore di oscurità concesse dalle notti nordiche erano già finite. Mi stiracchiai con cautela temendo il morso del mal di gambe, ma niente, nessun dolore. Lo spazzolino faticava a vincere la resistenza delle labbra tese. Non era esattamente un sorriso, somigliava più ad un irrefrenabile senso di compiacimento.
Un tetto di nuvole grigio e basso copriva il cielo. Il borbottio dell’acqua sul fornello a propano era l’unico rumore percettibile. Il vapore saliva perpendicolare, senza volute. Il fogliame, l’aria, tutto era fermo, come congelato in un fotogramma. Mi sedetti sotto un albero con la tazza fumante in mano, sospirai per poi trattenere il fiato ed ascoltare il silenzio.
Si, la fine di un viaggio somiglia alla morte, e quella era la miglior scenografia che potessi chiedere. Tenda, sacco a pelo, attrezzatura da campeggio, sistemai il bagaglio senza pensarci, con movimenti automatici. Tutto aveva trovato una collocazione nelle borse e nella mia mente. Esercizi di straching, manutenzione rapida della bici, primi tre chilometri con rapporto leggerissimo. Attività che, appena diventate abitudine, avrei dovuto smettere.
Ma è possibile che i dolori spariscano proprio l’ultimo giorno di viaggio? E’ possibile che ci si abitui ai ritmi, alla fatica, al cibo, proprio l’ultimo giorno di viaggio? E’ possibile che ci si renda pienamente conto della propria condizione privilegiata e della sua temporaneità proprio l’ultimo giorno di viaggio? No, non è possibile. E’ il nostro atteggiamento che cambia. Il vuoto nello stomaco che si sente quando un viaggio sta finendo non è fame, e nemmeno fatica. E’ morte. Solo un piccolo assaggio, un antipasto. Che poi si torna a vivere, si rinasce. Perché un viaggio in bici ti cambia, stravolge le tue priorità, ti rimette al mondo. Rinasci perché tutto ha una fine, anche il tuo viaggio. Rinasci perché sei morto, se no come potresti? Riparti perché fermarsi non si può, altrimenti che viaggio sarebbe? Che vita sarebbe?
Tutto appariva scolorito dalla luce soffusa, appiattito dalla mancanza di ombre. Sentivo lo scorrere del tempo, e quel senso di ansia delle scadenze ravvicinate. Cercavo di registrare ogni momento, ogni scorcio, con ingordigia. Ma non si può guardare tutto, pretendere di imprigionare tutto nei ricordi. Qualcosa sfugge, inesorabilmente, restano solo emozioni fugaci, ottuse. Come quando provi ad acchiappare la sabbia e più stringi più quella scivola via. Tanto vale accontentarsi di pochi granelli e vivere il viaggio come viene, con naturalezza. E ti ritrovi composto in bici, nella tua postura a testa bassa. Scegli di ignorare un panorama bellissimo ma sempre uguale. Perché viaggiare è assaggiare lasciando sempre un po’ di spazio, e se passa l’appetito le gambe si fermano.
Se partire è un po’ morire, anche arrivare lo è. E’ un evento improvviso, un crack nella testa e nel cuore. Non coincide con l’arrivo a casa ma con la consapevolezza che il viaggio è finito.
Percorrevo una pista ciclabile pavimentata con lastre di cemento lunghe qualche metro. Il passaggio da una lastra all’altra scuoteva la bici sovraccarica, una vibrazione sorda che scandiva un tempo sempre più rapido, incalzante. La pista era completamente deserta e proseguiva dritta a perdita d’occhio tagliando in due un bosco odoroso di muschio. Alberi e cespugli si alternavano senza fine come un rullo scenografico, sempre più veloce, nel silenzio. Mi abbassai per penetrare meglio l’aria. Misi il rapporto più duro, nove metri per pedalata. Veloce, sempre di più, in un ritmo crescente, con le gambe sempre in spinta e la bicicletta perfettamente perpendicolare. Respirazione, pedalata, battito cardiaco, sobbalzi, tutto era sincronizzato, perfetto, eterno. La vegetazione si infittì. Le ruote planavano su un sottile tappeto di aghi di pino e foglie secche, vorticavano senza attrito come orologi a trentasei lancette, affamati di tempo. Nessun dolore, nessun affanno, nessun rumore molesto, nessun gas nocivo, solo velocità, dinamismo allo stato puro, volo e vertigine insieme, ebbrezza di piacere e tumulto di paura annodati nello stomaco.
La fine di un viaggio somiglia alla morte, e quel viaggio è finito lì, in un bosco nei pressi di Uelzen, è lì che sono morto, un po’.

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